Per la Cassazione chiamare “bimbominkia” qualcuno su Facebook è diffamazione aggravata
COS'È SUCCESSO - Non c'è pace per i flamer: da oggi anche uno degli epiteti più usati nel mondo del web è bandito o meglio catalogato come vero e proprio reato. Pare che il termine "bimbominkia", a cui Wikipedia ha addirittura dedicato una voce, diventerà un po' più tabù grazie alla Cassazione, che l'ha indicato come diffamazione aggravata per risolvere un caso nato da Facebook. Su quel social un membro del Partito Animalista Europeo classe 1989 era stato additato come "bimbominkia" a seguito di un flame iniziato anni prima per questioni politiche, l'offeso è ricorso in giudizio e ha vinto definitivamente la causa. Rimangono alcuni dubbi: si tratta di qualcosa che ci cambierà la vita o sul tema, come spesso accade, c'è stato troppo sensazionalismo giornalistico? Inoltre una sentenza di questa portata potrà cambiare le abitudini di migliaia di internauti?
UNA NORMA POCO AMATA - Fine della parola "bimbominkia" sulla rete? A dire il vero il nostro essendo un sistema di civil law non si basa sui precedenti e sulle sentenze delle Corti, anche se alcune rimangono molto indicative. Inoltre l'art. 595 c.p. non gode di una grande fama, essendo stato recentemente giudicato incostituzionale dalla Consulta per la parte in cui prevede la reclusione. L'aggravamento della pena che riguarda il caso è previsto dal comma 3 della succitata norma: «Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro». Tuttavia non si è mai definito sulla base di cosa tale inasprimento della sanzione dovrebbe essere applicato: il solo fatto che un'offesa stia su un social network, il numero degli iscritti a un gruppo o a una chat o le visite al post incriminato?
CHE FUTURO PER "BIMBOMINKIA"? - Chiaramente ogni situazione farà storia a parte, anche se la giurisprudenza dovrebbe aggiornarsi e andare oltre le massime d'esperienza, i fatti notori e le leggi scientifiche di copertura. Nel caso in questione la parola "bimbominkia" riferita a un individuo specifico è stata considerata come «una definizione di una persona con un quoziente intellettivo sotto la media» e quindi una vera e propria offesa pubblicata in un gruppo Facebook con più di 2.000 iscritti. La Suprema Corte ha motivato la sentenza sostenendo che «il diritto di critica ha contorni ben delineati dalla continenza e non giustifica espressioni offensive e lesive dell'onore altrui». Questione chiusa per chi ha vinto - e perso - la causa, ma al prossimo "bimbominkia" su YouTube o Twitter ne inizierà veramente un'altra che approderà in Cassazione? Che in Italia si baruffi molto non ci piove, ma il sentore è che si sia trattato di un iter giudiziario eccezionale per non dire irripetibile.
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